La storia ritrovata del Varesotto Achille Scampini: Tragedia nel Canale d’Otranto
Sicuro una delle vicende meno note che seguì i tragici giorni dopo l'8 settembre 1943.
Dopo l'armistizio di Cassibile gli alti comandi italiani stavano mostrando grande incertezza e scarsa propensione a resistere con le armi. La maggior parte dei reparti, in accordo con i tedeschi, consegnava a questi ultimi gran parte delle armi. I tedeschi agirono con afficienza e brutalità attaccando gli italiani e la maggior parte vennero trasferiti nei campi di prigionia.
Un ruolo fondamentale è stato svolto dalla Regia Marina che con ogni mezzo rimasto e con grande sforzo cercò di recuperare e portare in Italia quanti più uomini possibili militari e civili italiani.
Diversi convogli furono formati quindi per portare in Patria tutti i superstiti.
Il Cap. Maggiore Achille Scampini nato a Somma Lombardo il 21 novembre 1915 inquadrato nella 163a Autosezione Pesante dal 1941 si trovava tra i superstiti scampato, per il momento, agli attacchi tedeschi, alla prigionia e alla rappresaglie dei nazionalisti albanesi.
Nel pomeriggio del 21 settembre 1943, due aerei italiani si abbassarono sulla colonna di soldati della "Perugia" in ritirata presso Delvino, e lanciarono un messaggio indirizzato al generale Chiminello: in esso si avvertiva che navi italiane sarebbero giunte entro breve a Santi Quaranta, per trarre in salvo gli uomini della Divisione. I soldati, rinvigoriti dalla speranza dell’imbarco e del ritorno in Italia, proseguirono con maggior vigore nella lunga marcia che si sperava dovesse portarli alla salvezza.
Già un primo convoglio, formato dalla motonave Probitas e dalle torpediniere Sirio e Clio, aveva raggiunto Santi Quaranta il 19 settembre, imbarcando 1750 uomini che furono portati in Italia il giorno seguente.
Diversi convogli furono formati quindi per portare in Patria tutti i superstiti.
Il Cap. Maggiore Achille Scampini nato a Somma Lombardo il 21 novembre 1915 inquadrato nella 163a Autosezione Pesante dal 1941 si trovava tra i superstiti scampato, per il momento, agli attacchi tedeschi, alla prigionia e alla rappresaglie dei nazionalisti albanesi.
Nel pomeriggio del 21 settembre 1943, due aerei italiani si abbassarono sulla colonna di soldati della "Perugia" in ritirata presso Delvino, e lanciarono un messaggio indirizzato al generale Chiminello: in esso si avvertiva che navi italiane sarebbero giunte entro breve a Santi Quaranta, per trarre in salvo gli uomini della Divisione. I soldati, rinvigoriti dalla speranza dell’imbarco e del ritorno in Italia, proseguirono con maggior vigore nella lunga marcia che si sperava dovesse portarli alla salvezza.
Già un primo convoglio, formato dalla motonave Probitas e dalle torpediniere Sirio e Clio, aveva raggiunto Santi Quaranta il 19 settembre, imbarcando 1750 uomini che furono portati in Italia il giorno seguente.
Il Cap. Maggiore Scampini sarebbe dovuto rientrare con un secondo convoglio formato dal piroscafo Dubac, salpato da Brindisi il 21 settembre insieme alla nuovissima motonave Salvore e con la scorta della moderna corvetta Sibilla e della vecchia torpediniera Francesco Stocco. La situazione era catastrofica molti soldati versavano in condizioni pietose, feriti e senza viveri, tra loro erano presenti anche molti uomini fuggiti dal campo di Drashovica.
Non riuscendo a partire subito dovette aspettare il convoglio del 24 settembre imbarcandosi sul Dubac alle 22 circa.
Da qui riporto una bellissima ricostruzione di Lorenzo Colombo dal sito Martiri del Dubac:
Da qui riporto una bellissima ricostruzione di Lorenzo Colombo dal sito Martiri del Dubac:
Alle 5.20 del 24 settembre il Dubac, in convoglio con Probitas e Salvore ed ancora la scorta di Stocco e Sibilla, salpò quindi da Brindisi diretto a Santi Quaranta, per recuperare gli altri uomini ancora bloccati sulla costa albanese. Ora sui mercantili c’erano anche alcune tonnellate di viveri da distribuire ai soldati affamati, in adempienza alla richiesta ricevuta durante il precedente viaggio, e munizioni.
Durante la navigazione, alle ore 13, la Stocco ricevette ordine di lasciare la scorta del convoglio e dirigersi verso Corfù, dove stavano sbarcando truppe tedesche, per aiutare nella difesa dell’isola; non ci arrivò mai, affondata con quasi tutto l’equipaggio dai bombardieri della Luftwaffe.
Il Dubac e le altre navi proseguirono invece verso Santi Quaranta, dove arrivarono alle 22 del 24 settembre. Qui trovarono ad attenderle migliaia di uomini disperati: ai soldati della "Parma" e della "Perugia", la cui situazione diveniva sempre più grave col passare del tempo, si erano uniti altri soldati sbandati, giunti dall’Epiro interno ed anche dalla Croazia orientale e dalla Slavonia nel tentativo di trovare una nave in partenza per l’Italia. Lungo la strada molti, già disarmati dai tedeschi, erano stati derubati dai partigiani albanesi e jugoslavi, che si erano presi tutto ciò che potesse tornare utile, calzature comprese; gran parte dei soldati in attesa d’imbarco erano in uno stato pietoso: laceri, scalzi, disarmati, con le divise a brandelli.
L’imbarco delle truppe avvenne nella notte tra il 24 ed il 25, nell’oscuramento totale, di nuovo sotto la supervisione del tenente colonnello Cirino, tornato dall’Italia come promesso con gli ordini richiesti: imbarcare quanti più uomini possibile per evitare la cattura da parte delle truppe tedesche, e consegnare le armi agli albanesi all’imbarco dell’ultimo scaglione.
Le notizie che arrivavano erano una peggiore dell’altra: Cefalonia era caduta, ed i tedeschi avevano iniziato a massacrare gli uomini della Divisione "Acqui" che la presidiava; e da Santi Quaranta i soldati potevano vedere direttamente la vicina Corfù martellata dai bombardamenti tedeschi. La Probitas, la nave più grande del convoglio (e che avrebbe potuto imbarcare il maggior numero di uomini), era entrata in porto in lieve ritardo per problemi ai motori, che ora le impedivano di ripartire. Molti uomini dovettero così essere lasciati a terra; dietro ordine del tenente colonnello Cirino, il Dubac e la Salvore imbarcarono circa 2700 militari (ma, nella fretta di terminare l’imbarco e ripartire per l’Italia il prima possibile, non fu fatta una conta precisa del numero di uomini imbarcati, né tanto meno redatti elenchi nominativi), dando la precedenza a feriti e ammalati. Di nuovo, dovevano imbarcarsi per primi i soldati senz’armi.
L’imbarco delle truppe, iniziato alle 21.30, richiese in tutto quattro ore.
Sempre per ordine del tenente colonnello Cirino, sul Dubac furono fatti salire per primi i soldati sbandati, rimasti senza armi, equipaggiamento ed in molti casi anche uniforme: s’imbarcarono quindi sul piroscafo quasi tutti i militari della Divisione "Parma" (49° e 50° Reggimento Fanteria) fuggiti in queste condizioni dal campo di Drashovica, oltre a molto personale della Divisione "Perugia". Di fatto, sia sul Dubac che sulla Salvore salirono soltanto soldati disarmati.
Quando giunse il momento di partire, il ponte del vecchio piroscafo traboccava di uomini, sistemati ovunque vi fosse posto: secondo una fonte, non confermabile, sul Dubac trovarono posto 1200 soldati. Erano sistemati ovunque in coperta, in parte seduti, i più in piedi, per mancanza di spazio. Quasi nessuno aveva il salvagente; i pochi disponibili erano di tipo antiquato.
Terminato l’imbarco, il convoglio ripartì per l’Italia verso le due o le tre di notte del 25, lasciando a Santi Quaranta altre migliaia di soldati e ufficiali in disperata attesa. Nessuno sarebbe venuto a salvarli: Dubac, Salvore e Sibilla erano le ultime navi italiane a lasciare l’Albania. La Probitas, impossibilitata a muovere, fu affondata quello stesso giorno da ripetuti attacchi aerei tedeschi.
Verso le 7.30 si unì al convoglio, per rinforzare la scorta in sostituzione della Stocco, la torpediniera Sirio; questa si posizionò sulla sinistra del Dubac, che procedeva in testa al piccolo convoglio, seguito dalla Salvore, che era protetta dalla Sibilla sul lato di dritta. Le navi procedevano lentamente, dovendosi adeguare alla scarsa velocità del vecchio e lento Dubac.
La Luftwaffe, però, avvistò il convoglio intorno alle sei del mattino, in mezzo al Canale d’Otranto. Dapprima apparve un ricognitore, da solo: l’unica mitragliera contraerea di cui disponeva il Dubac aprì il fuoco, inducendolo ad andarsene. Ma ormai aveva visto e segnalato il convoglio.
I tedeschi non intendevano permettere nemmeno alle tre navi rimaste di tornare indenni in Italia: verso le 7.45 del 25, infatti, il convoglietto venne assalito improvvisamente da dodici bombardieri in picchiata Junkers Ju 87 “Stuka”, decisi ad impedire sia il rientro in Italia delle truppe italiane che l’eventuale (e mai avvenuto) invio di rinforzi italiani in Albania. Gli Stukas attaccarono in più ondate, di tre velivoli ciascuno, scendendo in picchiata e mitragliando per poi sganciare le bombe.
Le navi italiane si diradarono immediatamente, manovrando rapidamente per rendere più difficile il compito ai bombardieri, e reagirono con le loro armi contraeree, colpendo due dei velivoli tedeschi.
Il Dubac non aveva molto con cui difendersi: il suo unico armamento consisteva in una singola mitragliera contraerea, che fu subito centrata e distrutta da una bomba; e vecchio e lento com’era – la sua velocità massima era stata di otto nodi, in tempi migliori – non poteva manovrare efficacemente per evitare di essere colpito (nelle parole del comandante della Sibilla: "Bersaglio troppo facile da colpire, carretta del mare lenta e poco manovrabile. Si vede che non avevano altro da mandare").
Senz’armi, i soldati ammassati sul piroscafo erano del tutto inermi; alcuni si buttarono a terra, altri si tuffarono in mare, altri ancora scoppiarono a piangere.
Gli Stukas mitragliarono il Dubac a volo radente, falciando gli uomini ammassati alla rinfusa sui ponti scoperti, e piombarono su di esso in picchiata, colpendolo con due o tre bombe, provocando una vera e propria carneficina tra i soldati: secondo una fonte, i morti furono più di 200.
Molti uomini, in preda al panico, si gettarono in mare, allontanandosi a nuoto; gran parte di questi, se non tutti, annegarono o scomparvero in mare. A bordo del piroscafo scoppiò il caos, e nella calca altri uomini rimasero schiacciati, uccisi o feriti.
Il maresciallo dei Carabinieri Antonio Casuale, della "Parma" (era uno dei molti soldati disarmati dai tedeschi, rinchiusi a Drashovica e poi fuggiti), si ritrovò sporco di sangue, sepolto sotto i corpi di cinque o sei uomini, tutti i morti. Furono proprio i loro cadaveri a proteggerlo: Casuale uscì pressoché illeso dall’attacco, soltanto sfiorato da una pallottola che gli “strisciò” sulla schiena senza causare ferite.
Il sottotenente medico Minozzi, che assisté alla scena dalla Salvore, così descrisse la scena: “Il Dubac, sovraccarico di militari stipati in coperta, tosto immobilizzato, crivellato di mitraglia e inesorabilmente bombardato dal terrificante carosello aereo, più non governa e sbanda sulla fiancata di destra. Centinaia di soldati trovano la morte, sono orrendamente feriti, dispersi in mare periscono per annegamento. Con paurosa inclinazione il relitto, col suo carico dolorante, raggiunge Capo d’Otranto e si incaglia sulle scogliere. Lo visiterò qualche giorno più tardi, rendendomi conto con maggiore esattezza dell’immane sinistro”.
La Luftwaffe, però, avvistò il convoglio intorno alle sei del mattino, in mezzo al Canale d’Otranto. Dapprima apparve un ricognitore, da solo: l’unica mitragliera contraerea di cui disponeva il Dubac aprì il fuoco, inducendolo ad andarsene. Ma ormai aveva visto e segnalato il convoglio.
I tedeschi non intendevano permettere nemmeno alle tre navi rimaste di tornare indenni in Italia: verso le 7.45 del 25, infatti, il convoglietto venne assalito improvvisamente da dodici bombardieri in picchiata Junkers Ju 87 “Stuka”, decisi ad impedire sia il rientro in Italia delle truppe italiane che l’eventuale (e mai avvenuto) invio di rinforzi italiani in Albania. Gli Stukas attaccarono in più ondate, di tre velivoli ciascuno, scendendo in picchiata e mitragliando per poi sganciare le bombe.
Le navi italiane si diradarono immediatamente, manovrando rapidamente per rendere più difficile il compito ai bombardieri, e reagirono con le loro armi contraeree, colpendo due dei velivoli tedeschi.
Il Dubac non aveva molto con cui difendersi: il suo unico armamento consisteva in una singola mitragliera contraerea, che fu subito centrata e distrutta da una bomba; e vecchio e lento com’era – la sua velocità massima era stata di otto nodi, in tempi migliori – non poteva manovrare efficacemente per evitare di essere colpito (nelle parole del comandante della Sibilla: "Bersaglio troppo facile da colpire, carretta del mare lenta e poco manovrabile. Si vede che non avevano altro da mandare").
Senz’armi, i soldati ammassati sul piroscafo erano del tutto inermi; alcuni si buttarono a terra, altri si tuffarono in mare, altri ancora scoppiarono a piangere.
Gli Stukas mitragliarono il Dubac a volo radente, falciando gli uomini ammassati alla rinfusa sui ponti scoperti, e piombarono su di esso in picchiata, colpendolo con due o tre bombe, provocando una vera e propria carneficina tra i soldati: secondo una fonte, i morti furono più di 200.
Molti uomini, in preda al panico, si gettarono in mare, allontanandosi a nuoto; gran parte di questi, se non tutti, annegarono o scomparvero in mare. A bordo del piroscafo scoppiò il caos, e nella calca altri uomini rimasero schiacciati, uccisi o feriti.
Il maresciallo dei Carabinieri Antonio Casuale, della "Parma" (era uno dei molti soldati disarmati dai tedeschi, rinchiusi a Drashovica e poi fuggiti), si ritrovò sporco di sangue, sepolto sotto i corpi di cinque o sei uomini, tutti i morti. Furono proprio i loro cadaveri a proteggerlo: Casuale uscì pressoché illeso dall’attacco, soltanto sfiorato da una pallottola che gli “strisciò” sulla schiena senza causare ferite.
Il sottotenente medico Minozzi, che assisté alla scena dalla Salvore, così descrisse la scena: “Il Dubac, sovraccarico di militari stipati in coperta, tosto immobilizzato, crivellato di mitraglia e inesorabilmente bombardato dal terrificante carosello aereo, più non governa e sbanda sulla fiancata di destra. Centinaia di soldati trovano la morte, sono orrendamente feriti, dispersi in mare periscono per annegamento. Con paurosa inclinazione il relitto, col suo carico dolorante, raggiunge Capo d’Otranto e si incaglia sulle scogliere. Lo visiterò qualche giorno più tardi, rendendomi conto con maggiore esattezza dell’immane sinistro”.
il Dubac, visibilmente sbandato, arranca verso la costa seguito dalla Sirio (Collezione Antonio Angelo Carria)
L’attacco terminò dopo circa venti minuti. Il Dubac imbarcò acqua da varie falle e prese a sbandare sulla sinistra, minacciando di capovolgersi, ma nonostante i gravi danni continuò a navigare, forzando le caldaie al massimo della pressione per cercare di raggiungere la costa italiana. Secondo quanto annotato da alcuni sopravvissuti e testimoni, tra cui Renato Ughi, Alessandro Minozzi (sottotenente medico del 49° Ospedale da Campo, che assisté alla tragedia dalla Salvore) e Pierino Terzoli, la nave si fermò e sbandò su un fianco, restando immobilizzata, poi rimise in moto un motore a velocità molto ridotta, restando sempre sbandata.
Ristabilito a bordo un po’ di ordine, i soldati rimasti illesi ricevettero ordine di spostarsi sul lato di dritta, per cercare di controbilanciare lo sbandamento, mentre si cercava di prestare soccorso ai feriti. Molti non poterono essere soccorsi, mancando del tutto i mezzi necessari a bordo del Dubac.
Il caporale Pierino Terzoli, gravemente ferito ad un braccio, in due punti, da colpi di mitragliatrice durante l'ultima ondata, salì sul ponte di comando per chiedere aiuto, dato che stava perdendo molto sangue; il comandante del Dubac lo vide e strappò allora una bandierina di segnalazione, che usò per fasciargli strettamente il braccio appena sotto la spalla. Appena disceso, però, Terzoli svenne; si riprese successivamente in una cabina, dove un ufficiale che lo conosceva si stava adoperando al meglio per prestargli le cure del caso.
Il sottotenente Ughi della Guardia di Finanza, rimasto quasi indenne (aveva ricevuto solo ferite superficiali da schegge al volto ed alla schiena), svuotò gli zaini dei morti della biancheria e la utilizzò per bendare alla meglio i feriti. Lo aiutarono altri due militari della Guardia di Finanza, il sottobrigadiere Attilio Dodi ed il finanziere Luigi Addante; i tre utilizzarono come disinfettante alcune bottiglie di acqua di colonia. Prestati i primi soccorsi ai feriti, Ughi, Dodi e Addante, insieme ad altri, fecero un po’ di spazio sul ponte, raccogliendo i corpi dei morti sparsi dappertutto ed ammucchiandoli al centro della nave.
Ughi trovò sul ponte anche il brigadiere della Guardia di Finanza Giovanni Zanin, uno dei suoi sottoposti, in condizioni gravissime; perdeva molto sangue da numerose ferite. Ughi si chinò su di lui per soccorrerlo, e subito Zanin cercò di rizzarsi su un fianco, gli buttò al collo il braccio destro (che era rimasto indenne) e gli disse, sorridendo, “Questa volta è andata male. Non importa. Lo spirito è sempre alto. E l’Italia è vicina”. Ughi gli disse di restare calmo e gli fasciò alla meglio le ferite più gravi, per evitare che morisse dissanguato; poi, giudicate le sue condizioni abbastanza rassicuranti, lo lasciò, affidandolo ad Addante, e si volse a soccorrere altri feriti.
Quando il grado di sbandamento del Dubac divenne pericoloso, il comandante della Sirio (capitano di corvetta Antonio Cuzzaniti), che aveva raggiunto la nave colpita per prestarle assistenza, ordinò al piroscafo di portarsi all’incaglio sulla costa pugliese, un miglio a nord del faro di Otranto. Ciò avvenne, a seconda delle fonti, alle undici od a mezzogiorno.
I molti feriti del Dubac, a partire dai più gravi, furono trasbordati sulla Sirio, appositamente affiancatasi al piroscafo, che provvide a trasportarli rapidamente a Brindisi. Il marinaio stereotelemetrista Antonio Angelo Caria, imbarcato sulla Sibilla, ricordò in seguito che la tolda della Sirio e la murata sinistra del Dubac erano entrambe cosparse di sangue.
Il resto dell’equipaggio e delle truppe imbarcate sul Dubac, che era ancora sbandato, furono invece presi a bordo da sei motopescherecci e motovelieri accorsi da Otranto. Un ufficiale cercò di disciplinare l’abbandono della nave, raccogliendo gli uomini rimasti illesi affinché aiutassero a trasbordare i feriti sulle imbarcazioni soccorritrici; solo quando tutti i feriti furono trasferiti sulle altre unità ebbe inizio il recupero degli uomini rimasti illesi. I pescherecci sbarcarono i superstiti sulla costa otrantina; molti, dopo tutto quello che avevano passato, baciarono la terra, si misero a piangere per la felicità. Molti cercavano i propri amici e commilitoni, cercando di scoprire se fossero vivi o morti, illesi o feriti.
Parte dei naufraghi furono rifocillati in un istituto di suore di Otranto, altri furono accolti e ristorati da famiglie del luogo; successivamente furono trasportati a Lecce, dove furono rivestiti.
Non essendo stata stesa una lista con i nomi degli uomini imbarcati, non esistono dati certi su quante furono le vittime del Dubac: molti degli uomini che morirono su quella nave, con ogni probabilità, risultano ancora oggi dispersi. Ad oggi risultano noti i nomi di almeno 76 militari deceduti sul piroscafo, ai quali sono da aggiungersi almeno 7 civili, di cui 5 membri dell’equipaggio. Altre fonti parlano di oltre 100 morti e 200 feriti, o di 160 morti e 360 feriti, o di oltre 200 morti (il caporale Terzoli, nei suoi appunti di quei giorni, riporta che “ci furono 500 morti circa ed altrettanti feriti”, ed anche il sottotenente Minozzi parla di centinaia di soldati morti o scomparsi).
Le salme recuperate a bordo del Dubac furono trasportate al cimitero di Otranto su carretti militari trainati da muli; molte delle vittime riposano oggi nel Sacrario di Otranto.
A questa lista aggiungiamo oggi il nome di Achille Scampini di 27 anni originario di Somma Lombardo (Varese)
Così ricordò le missioni di rimpatrio truppe dall’Albania ed il bombardamento del Dubac il marinaio stereotelemetrista Antonio Angelo Caria, imbarcato sulla Sibilla:
“Nel bel mezzo del Canale di Otranto siamo stati attaccati da un gran numero di Stukas (decollati dalla vicinissima Corfù). L'attacco é stato repentino, a volo radente sul livello del mare, per cui non abbiamo avuto il tempo di brandeggiare le mitragliere perchè le cabrate e le successive "picchiate" ci hanno costretto a salvarci con estreme virate Il Sirio, noi Sibilla e il Salvore, manovrabilissimi, abbiamo evitato tutte le bombe che ci sono state lanciate. Il Dubac, purtroppo, é stato centrato da 2-3 bombe causando una carneficina fra i soldati stipati all'inverosimile. Per questo, il Dubac ha cominciato a sbandare sul lato sinistro per il cui sbandamento si è cercato di controbilanciarlo facendo affluire tutti i soldati incolumi, all'interno (lato agibile) e all'esterno, del lato destro. Al Comandante del Dubac é stato ordinato di andare avanti con le macchine a tutta forza, fino a raggiungere la costa salentina ove potersi arenare o incagliare, per evitare l'affondamento, cosa che é avvenuta. Alla Torpediniera Sirio é toccato l'ingrato compito di accostarsi al Dubac per prendere i feriti più gravi per portarli immediatamente a Brindisi (quando vi é arrivato, aveva tutta la tolda intrisa di sangue, ma anche il Dubac aveva il lato sinistro sporco di sangue). I feriti meno gravi sono stati soccorsi dai mezzi sopraggiunti da Otranto e trasportati a Lecce. I morti, quasi duecento, sono stati recuperati successivamente. Noi Sibilla, invece, abbiamo ricevuto l'ordine di scortare la motonave Salvore fino a Brindisi. Sono ancora convinto che se i nostri soldati fossero stati fatti affluire verso il porto di Valona, che é quasi di fronte a Brindisi, molto probabilmente avremmo potuto rimpatriare molti-molti altri soldati [evidentemente Caria non sapeva che Valona era già stata occupata dai tedeschi il 10 settembre, nda]. Non é stata progettata ed eseguita altra missione per Santi Quaranta, visto il grande pericolo che occorreva affrontare. Pazienza per quelli che si trovavano molto più a sud (Peloponneso, Morea) e quelli in Tessaglia e a nord della Grecia, compresi i Carabinieri martiri di Cefalonia e quelli del Dodecaneso, Lero compreso-ove c'era un mio cugino. Il destino per quei soldati, marinai, carabinieri che non si sono potuti rimpatriare è stato di finire nei campi di concentramento in Germania.”
"Il 25 settembre 1943, mentre dall'Albania ritornava in Patria, la barbarie tedesca stroncava la fiorente giovinezza ed il nobile cuore del cap. magg. Achille Scampini."
Alcuni tra i tanti ricordi conservati dalla famiglia della spedizione in Albania del figlio deceduto (più di mille franchigie conservate)